BIO | PISANTY Valentina
Semiologa, insegna presso l’Università di Bergamo. Ha scritto saggi sulla semiotica interpretativa, sulla fiaba, sul discorso politico, sulla retorica del razzismo e sulla memoria. Tra le sue pubblicazioni: Leggere la fiaba (Bompiani 1993), Semiotica e interpretazione (con Roberto Pellerey, Bompiani, 2004), La difesa della razza: Antologia 1938-1943 (Bompiani, 2006), Semiotica (con Alessandro Zijno, McGraw-Hill, 2010), Abusi di memoria (Bruno Mondadori, 2012) e L’irritante questione delle camere a gas: logica del negazionismo (Bompiani, 1998; edizione rivista e ampliata, 2014). Collabora con le pagine culturali del Manifesto.
Al Festival 2018 i suoi interventi sono stati:
con Furio Colombo, Gianni Coscia, Roberto Cotroneo, Paolo Fabbri, Riccardo Fedriga, Maurizio Ferraris e Marco Santambrogio
Musica e parole. Un ricordo di Umberto Eco
Dell’ingegno multiforme di Umberto Eco si è ricordato molto ma non tutto: il serissimo studioso di san Tommaso, semiologo, romanziere, bibliofilo, faceva posto nella sua sterminata memoria alla più completa raccolta di barzellette del secolo. Ci raccontano il suo precoce umorismo due amici di infanzia e di gioventù e di tutta la vita, Gianni Coscia e Furio Colombo. I suoi allievi e poi colleghi, Valentina Pisanty e Riccardo Fedriga, ricordano qualcuna delle sue infinite battute di spirito. Roberto Cotroneo, Paolo Fabbri, Maurizio Ferraris, Marco Santambrogio, vecchi amici e colleghi, descrivono i momenti più impensati in cui lo hanno visto ridere e giocare con le parole.
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con Sergio Luzzatto
Da Auschwitz a Gerusalemme: la visione di Israele
Tragicamente privati di una famiglia, di una casa, di una lingua, nell’Europa (e nell’Italia) della Liberazione i più giovani fra i sopravvissuti della Shoah videro dischiudersi davanti a loro, grazie agli emissari sionisti, la prospettiva di un futuro in Palestina. Ma dopo la guerra d’indipendenza del 1948, la visione di un nuovo Israele avrebbe finito per tradursi, nella Terra promessa, anche in nuovi (e brutali) rapporti di forza.
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Al Festival 2016 il suo intervento è stato:
Binge-watching: la narrativa al tempo di Internet
Oggi annoverato tra le nuove forme di dipendenza tecnologica insieme alla ludopatia da videogiochi, al sesso in rete e alla sindrome del cellulare fantasma, il cosiddetto binge-watching (la visione compulsiva e ininterrotta di serie televisive) pare legato all’offerta pressoché illimitata di stagioni complete in streaming, che svincola la visione dalle cadenze del palinsesto tradizionale, con immediate ricadute sulle modalità di consumo. Per la maggior parte degli utenti la fruizione avviene in solitario, spesso in ambiente domestico, in un rapporto regressivo con il dispositivo trasmittente che agevola l’immersione totale negli universi della finzione eroica e la riluttanza a far ritorno nell’assai più modesta sfera dell’agire quotidiano. Ma quanto è lontana la compulsione seriale dalle forme più tradizionali di intossicazione? L’intervento analizza la vasta fenomenologia delle dipendenze da serie da una prospettiva semiotica, con il proposito di distinguere tra diversi stili di fruizione immersiva: dalle maratone solitarie e onnivore che possono suscitare sentimenti individuali di frustrazione e di inadeguatezza, all’intensa attività sociale che viceversa circonda alcuni specifici culti televisivi. Quale connessione c’è tra questi atteggiamenti e l’architettura di quei mondi narrativi? E quali effetti producono le frequenti e prolungate immersioni nei mondi seriali sulla percezione collettiva del mondo reale?
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Al Festival 2014 il suo intervento è stato:
Retorica del negazionismo
Il negazionismo è un dispositivo retorico dotato di una logica interna, di un repertorio di motivi ricorrenti e di un armamentario di tecniche argomentative tese a seminare dubbi sulla realtà dello sterminio nazista. Lo si può analizzare come oggetto semiotico a sé stante, smontando le strategie interpretative e discorsive di cui si avvalgono gli «Eichmann di carta» per sostenere che la Shoah è un’invenzione della propaganda sionista. Ma un dispositivo retorico non opera nel vuoto. Senza un uditorio ricettivo, senza un sistema culturale disposto ad accoglierlo, sia pure per biasimarlo o censurarlo, non esisterebbe se non nelle menti e nei discorsi di un numero esiguo di persone. Ne consegue che il negazionismo ha bisogno di qualcuno che lo faccia funzionare, innescando i circuiti comunicativi che lo rendono efficace.